Oggi ha inizio un nuovo appuntamento per gli amici della Fondazione Amadeus. Su queste pagine troverete, spesso divisi in varie puntate, alcuni degli articoli più importanti apparsi nei numeri dei primi trent’anni della rivista Amadeus. Qui i lettori potranno avvalersi anche di alcuni link scelti in modo da poter essere guidati nell’ascolto dei più significativi dei brani citati.
Le parole che contengono un link sono in colore azzurro e sottolineate.
Iniziamo con «La breve storie dell’opera». In quattro puntate Andrew Porter, che fu uno dei massimi studiosi del melodramma italiano, racconterà le appassionanti vicende della lirica dalle origini ai nostri giorni. 
Gli articoli pubblicati in questa rubrica saranno archiviati e facilmente recuperabili da coloro che non li hanno letti al momento della pubblicazione.
Buona lettura.

Breve storia dell’opera: 1 – Le origini

di Andrew Porter

(pubblicato sul n. 7 di Amadeus, giugno 1990)

L’opera del principe e della Serenissima

Ebbe inizio circa quattrocento anni fa: per la precisione, a Firenze, a Palazzo Pitti, il 6 ottobre 1600. Uno degli spettacoli allestiti per celebrare il matrimonio di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia fu Euridice, presentato da Jacopo Corsi. Il testo poetico scritto da Ottavio Rinuccini, la musica da Jacopo Peri. Un dramma, il dramma di Orfeo ed Euridice, veniva recitato in musica. Fu la prima opera. Questo nuovo genere non fece presa immediatamente, ma poi si diffuse fino a conquistare il mondo intero. Quasi quattro secoli dopo, l’opera ci affascina ancora: la più elaborata, la più completa, e la più costosa di tutte le arti. La definizione più semplice è «un lavoro teatrale tradotto in musica». Ma è più di questo. Il recitar cantando fu il punto di partenza: aggiungere l’eloquenza della musica al linguaggio drammatico. Ma sin dall’inizio significò molto di più. Iniziò, e crebbe, come sintesi di parola e canto, arricchita dal gesto drammatico, dallo spettacolo scenico, dalle colorature strumentali, dalle danze, dagli effetti di luce, dall’interazione di solisti, strumenti e cori. Era, e rimane ancora, l’arte completa, creata da drammaturghi-poeti, compositori, pittori e architetti e fatta vivere dall’abilità immaginativa ed esecutiva di musicisti e tecnici di scena.

I diversi elementi si univano e si combinavano per creare «l’opera» e a volte si scontravano. La Storia dell’opera è una storia di riforme; tentativi di riportare quest’arte al suo alto destino ogni qualvolta un’eccessiva enfasi su un elemento particolare (un’esibizione scenica troppo calcata, la parata del virtuosismo dei cantanti solisti, elaborazioni orchestrali a spese degli attori, elaborazione musicale a detrimento del dramma) sovraccaricavano il delicato, instabile e sempre avvincente equilibrio che Peri e i suoi collaboratori avevano fatto presagire e che Monteverdi nel suo Orfeo portò a perfezione magistrale. Se si esamina attentamente la storia operistica, si vede come i creatori e i progressisti di ogni secolo, Gluck, Wagner, Stockhausen siano alle prese con gli stessi problemi che impegnarono i compositori del Seicento: incompatibilità tra parole e musica e il procedere della narrazione in musica (recitativo), tra l’esibizione vocale e la semplicità diretta, tra gli strumenti di accompagnamento e gli strumenti «attori» (com’è il caso di «Possente spirto» di Orfeo), tra scenari decorativi e sena drammatica..

I – I primi allestimenti

L’opera non nacque all’improvviso. Il dramma religioso fu uno dei predecessori. L’altro è da ricercare negli «intermedi» della corte fiorentina: fastosi spettacoli teatrali, altamente strutturati, in cui si fondevano poesia, musica e spettacolo, in particolare gl’intermedi del 1589, ai quali presero parte diversi futuri compositori di opera (e tra questi Jacopo Peri, Giulio Caccini, Emilio de’ Cavalieri e Alessandro Striggio, futuro librettista di Orfeo).

Il matrimonio di Ferdinando de’ Medici con Cristina di Lorena.

Il testo di questa elaborata rappresentazione, che celebrava il matrimonio di Ferdinando de’ Medici con Cristina di Lorena, era in parte di Rinuccini. Coordinatore era il conte Giovanni de’ Bardi, la cui Camerata, negli anni attorno al 1570, si era impegnata nella sostituzione di un intricato contrappunto vocale con una monodia accompagnata da strumenti. Ma il ruolo di Bardi nell’invenzione di questa nuova forma d’arte è stato sopravvalutato. L’opera nacque non da un qualsiasi tentativo sistematico della Camerata di «ricreare la tragedia greca» ma, piuttosto, da una combinazione quasi casuale, anche se fatale di circostanze. Il nuovo duca Ferdinando, portò a Firenze un compositore di talento, il romano Emilio de’ Cavalieri, che nominò proprio sovrintendente artistico, e il famoso soprano Vittoria Archilei, che Cavalieri, Peri e Caccini salutarono come propria musa del nuovo canto espressivo.
Quando Bardi partì per Roma nel 1592, Palazzo Corsi divenne il centro d’interesse intellettuale, dove Tasso e Monteverdi furono onorati ospiti e dove Peri e Rinuccini crearono la loro Dafne, una favola boschereccia che, a giudicare del libretto (la musica salvo pochi frammenti, è andata persa), è da considerare un’opera mancata solo per poco.

II – Il recitar cantando

Cavalieri, Caccini e Peri, tutti furono promotori del nuovo stile di scrittura monodico vocale, dando forza, eloquenza e chiarezza al testo, e rendendo l’opera possibile. «Recitar cantando» era una frase di Cavalieri. Caccini scrisse «una sprezzatura del canto», Peri (nella prefazione di Euridice) di mirare a un «temperato corso tra i movimenti del canto sospesi, e lenti, e quegli della favella spediti, e veloci». Alla rapidità e all’immediatezza del discorso drammatico venne aggiunto il potere affettivo di melodia e armonia. Un’opera tutta in recitativo sarebbe stata monotona: Euridice comprende canti, danze, cori, arie e ariosi. E la «partecipazione drammatica» della decorazione scenica è così descritta da Michelangelo Buonarroti il Giovane: la scena pastorale «mostrava selve vaghissime, e rilevate e dipinte… e per i lumi ben dispostivi, piene di una luce come di giorno». Nel IV Atto, «per la rottura d’un grande rupe, la città di Dite ardere vi si conobbe, vibrando lingue di fiamme per le aperture delle sue torri, l’aere d’intorno avvampandosi di un colore come rame».

La seconda opera fu la messa in scena di Caccini dello stesso libretto di Euridice, che è più «a misura di cantante» rispetto a quella di Peri: cantar recitando invece di recitar cantando. L’equilibrio dell’opera era già cambiato. La terza opera fu l’Orfeo di Monteverdi, rappresentata a Mantova nel 1607. Qui tutto è in perfetto equilibrio. All’inizio, una figura allegorica si fa avanti per declamare i versi che sono il credo del compositore dell’opera:

Io la musica son, ch’ai dolci accenti,
So far tranquillo ogni turbato core,
Ed or di nobili ira ed or d’amore
Poss ‘infiammar le più gelate menti.

Giovan Battista Tiepolo: Apollo insegue Dafne.

La quarta e la quinta opera furono Dafne di Marco da Gagliano e Arianna di Monteverdi, entrambe rappresentate a Mantova l’anno seguente. L’opera rimaneva un’impresa principalmente aristocratica. (Bologna era un’eccezione nel presentare nel suo Teatro Pubblico quelli che sembra siano stati spettacoli “civici”. Nei decenni successivi, le manifestazioni più imponenti furono quelle date con grande sfarzo a Palazzo Barberini, a Roma, con la partecipazione di virtuosi pontifici.

III – L’impresa veneziana

Ma poi, anche mentre continuava la serie al Barberini, il fulcro dell’interesse operistico si spostò a Venezia e l’opera si trasformò in un’impresa commerciale. Il primo teatro lirico pubblico del mondo, il Teatro Tron di San Cassiano, aprì i battenti nel 1637, con una rappresentazione dell’Andromeda di Francesco Manelli, messa in scena nel periodo di carnevale dalla compagnia Manelli di Roma. L’opera diventò uno spettacolo popolare. A Venezia un teatro seguì l’altro: SS. Giovanni e Paolo (1639), San Moisé (1640), il Novissimo (1641), SS. Apostoli (1649), S. Apollinare (1651), San Salvatore (1661), Sant’Angelo (1676), San Giovanni Crisostomo (1678, ora Teatro Malibran, cinematografo), ognuno dei quali offriva nuove attrazioni carnevalesche. Venezia divenne una specie di fabbrica dell’opera.

Ritratto di Claudio Monteverdi eseguito da Bernardo Strozzi – (c.1630).

Nel 1612, Monteverdi era stato nominato maestro della cappella di San Marco. Nel 1639, trent’anni dopo Orfeo, la sua Arianna mantovana fu ripetuta a Venezia. Nel 1641 fece la sua comparsa il suo Il ritorno di Ulisse in patria; l’anno seguente, L’incoronazione di Poppea, che, secondo la cultura moderna, è in gran parte sua sebbene le scene conclusive (compreso il famoso duetto «Pur ti miro», un tempo osannato come una delle sue imprese più alte) siano ora attribuite ad altri autori. In Ulisse e Poppea, Monteverdi recuperò l’equilibrio tra musica e dramma, tra forme chiuse e simmetriche e declamazione libera del suo Orfeo mantovano e li riordinò per il teatro pubblico. Egli portò anche sulla scena lirica prima Omero e poi la storia. (Opere precedenti avevano tratto i propri soggetti da Ovidio, poi dall’Ariosto e dal Tasso). Tuttavia, lo storico dell’opera del XX secolo deve notare con dispiacere che, a quel tempo, il suo genio contava poco. I compositori di successo del momento erano Francesco Cavalli e Antonio Cesti. Mentre il Giasone di Cavalli e l’ Orontea di Cesti (entrambe del 1649) erano i lavori più rappresentati, una città dietro l’altra costituiva una sua compagnia d’opera. Cavalli fu invitato a comporre per Parigi, Cesti per Innsbruck e Vienna.

I lavori veneziani fecero dell’opera un genere popolare. Le trame divennero quasi standardizzate: due coppie di amanti in disaccordo per un malinteso, ambiguità sessuali (come nel Callisto di Cavalli), commenti ironici di servitori cornici, anziane nutrici che sospiravano per amore. I cantanti protagonisti catturarono la fantasia del pubblico, le loro arie si fecero sempre più importanti e l’accompagnamento strumentale divenne più semplice. Verso la fine del secolo, il periodo di sperimentazione animata (la prova e l’ampliamento della nuova forma d’arte per scoprire tutto quello che avrebbe potuto racchiudere) cedette sempre più alle formule comprovate dal successo. La convenzione delle arie «da capo», legate al recitativo, iniziò a prendere piede. Gli elementi comici furono banditi per essere raggruppati in seguito in intermezzi comici recitati tra un atto e l’altro di una tragedia o come opere comiche vere e proprie.

Queste opere secentesche erano scritte per il consumo immediato, non per la posterità, e la maggior parte venne ben presto dimenticata. Cavalli ritornò da Parigi per ritrovarsi già sorpassato; le sue ultime due opere non vennero mai rappresentate. Le grandi opere di Monteverdi furono ignorate nel XVIII e nel XIX secolo; tre di loro sono sopravvissute e fanno parte della storia operistica vivente del XX secolo che viene scritta nei teatri odierni. Alla nostra epoca è stato lasciato il compito di scoprire la loro «verità psicologica», la loro forza drammatica e bellezza musicale. Alla nostra epoca, con le produzioni di Cavalli, Cesti e, recentemente, di Francesco Sacrati, la riscoperta della freschezza, della sveltezza e della flessibilità dell’opera nei giorni in cui l’opera era giovane.

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*Nel prossimo capitolo: I maestri dell’aria e del recitativo