Ed eccoci arrivati all’Ottocento, il secolo che ha visto l’opera protagonista assoluta della vita culturale, sociale e in molti casi politica: in “Senso”, il capolavoro di Luchino Visconti, troviamo un fulgido esempio di ciò che avveniva nella platea del Teatro La Fenice di Venezia in pieno Risorgimento. Verdi, che vide il suo nome trasformato in un acronimo, fu tra i protagonisti di un momento in cui il mondo guardava all’Italia che, dopo essere stata la culla del melodramma, era diventata, con Bellini, Rossini, Donizetti e Verdi il punto di riferimento imprescindibile per tutti coloro che operavano nel mondo dello spettacolo.

Breve storia dell’opera: 3 – L’Ottocento

di Andrew Porter

(pubblicato sul n. 9 di Amadeus, agosto 1990)

Il dramma musicale nell’età romantica

Se analizziamo attentamente l’opera del XIX secolo attraverso le composizioni che vennero effettivamente rappresentate e non attraverso quelle di cui si parlò molto e di quelle che le generazioni successive decisero che fossero importanti, vediamo che, per la maggior parte del secolo, dominano tre nomi: Rossini, Donizetti e Verdi. Diversi fattori contribuirono a rendere più internazionale il genere operistico, tra questi c’erano la maggior facilità e rapidità dei trasporti; l’influenza delle grandi case editrici (prima fra tutte la Casa Ricordi); il potere della stampa (che raccontava al mondo intero quelli che in passato sarebbero stati trionfi o fiaschi); le capacità di impresari come Alessandro Lanari (che gestiva una schiera di cantanti famosi) e Domenico Barbaja (che un tempo controllava i teatri lirici di Napoli, Milano e Vienna, che aveva Rossini e Donizetti sui propri libri paga, che portò Bellini in primo piano sulla scena milanese poi su quella internazionale e che commissionò opere a Schubert , Weber e – senza successo – a Beethoven).

I – Una grande sete di novità

Locandina della prima assoluta del “Macbeth” di Giuseppe Verdi a Firenze nel 1847.

Il pubblico del XIX secolo, come quello del XVIII, aveva sete di novità, e ciò che un tempo avrebbe potuto risolversi commissionando alcune nuove versioni (adattate alle risorse teatrali locali) di un glorificato libretto di Metastasio, divenne ora l’occasione per allestire un recente successo internazionale. Prendiamo Macbeth, che fu presentato per la prima volta a Firenze nel 1847. Non fu una delle opere di maggior successo di Verdi, non fu rappresentata spesso come l’Ernani e I due Foscari, o la Lucrezia Borgia e la Maria di Rohan di Donizetti, ma nel giro di tre anni venne messa in scena a Padova, Lucca, Roma, Livorno, Venezia, Lodi, Verona, Mantova, Reggio Emilia, Ancona, Genova, Fermo, Trieste, Brescia, Napoli, Milano, Bologna, Parma, Trapani, Forlì e Sinigaglia; mentre all’estero fu vista a Madrid, Budapest, Barcellona, Costantinopoli, Valencia, Varsavia, Lisbona, Malta, Oporto, Corfù, Vienna, L’Avana, New York e Boston. Entro il 1852 aveva raggiunto Bologna, Torino, Modena, Trento, Rovigo, Pisa, Fiume, Ferrara, Faenza, Bergamo, Cesena, Lugo, Palermo, Terni e anche Hannover, Vienna, Alicante, Siviglia, Malaga, Rio de Janeiro, Stoccolma, Lubiana e Odessa.
Nessun’opera del XVIII secolo – e nessun’opera moderna (eccetto forse via radio o televisione) – visse una diffusione simile. È quasi spontaneo paragonare tale fortuna di pubblico a quella di un film moderno, ma non è un procedimento molto preciso; un’opera richiede la collaborazione organica di solisti, coro, orchestra e scenari, e ogni sua rappresentazione è diversa.

II – La ricerca dell’innovazione

Rossini, Donizetti e Verdi non stavano solo rispondendo alle richieste del pubblico. Ognuno di loro stava cercando qualcosa di nuovo. Rossini non è generalmente annoverato tra i riformatori operistici; il suo brillante esempio fece molto per la codificazione delle nuove convenzioni formali che resero possibile un’azione teatrale più rapida: introduzione, aria di sortita, gran duetto a tre movimenti, largo concertato, preghiera, rondò finale ecc.

Gioachino Rossini in un ritratto fotografico di Carjat del 1865.

In una serie di lavori napoletani, da Elisabetta (1815) in poi, egli trovò però vari modi di rendere l’opera più veritiera, più romantica, più drammatica, adattando le convenzioni alle esigenze di un particolare dramma. La Commedia ha svolto un ruolo ridotto nella nostra cronistoria: Rossini, come Mozart prima di lui, lavorava su soggetti seri con sottili procedure che l’opera comica, non l’opera seria, aveva introdotto per prima. Per non correre rischi, scendeva anche a compromessi e riversava «Colate laviche di gorgheggi». Una prima donna poteva affascinare il pubblico coi propri virtuosismi vocali.
Stabilitosi a Parigi ricco, libero da preoccupazioni commerciali e dal trambusto della vita operistica italiana Rossini purificò il Maometto II e il Mosè di Napoli nei meno spettacolari, dal punto di vista vocale, Le Siège de Corinthe e Moise. Ma non tutti gli ascoltatori del XX secolo hanno potuto godersi i rifacimenti – o il loro risoluto e nobile successore, Guglielmo Tell – quanto le vocalmente esuberanti versioni precedenti.
Finora non si è citato Bellini solo perché compose di meno, compose più lentamente e morì giovane. Egli lavorò sui principi di Rossini e vi aggiunse – nelle sue prime opere scaligere, Il pirata e La straniera – un nuovo senso di vigoroso recitar cantando che gli procurò la notorietà. Passò poi – con La sonnambula, la Norma e I puritani – a lunghe, lunghissime melodie liriche. Donizetti e, in seguito, Verdi adottarono il canto declamato per colpire in modo più diretto il pubblico. Rossini, Donizetti e Verdi dominarono a turno le scene liriche mondiali finché rimasero attivi e poterono continuare a comporre nuove opere ma, entro la fine del secolo, tutti i loro lavori, a eccezione dei più famosi, furono dimenticati. Solo Il barbiere, L’elisir d’amore, la  Lucia di Lammermoor, il Don Pasquale, Rigoletto, La traviata, Il trovatore, l ‘Aida e l ‘Otello venivano abitualmente rappresentati.

III – L’avvento di Wagner

Glinka, Musorgskij e Borodin in Russia, Smetana e Dvorák in Boemia, scrissero eccellenti opere nazionali, il cui consenso internazionale, tuttavia, costituisce un capitolo della storia del XX secolo. L’opera francese conduceva già da lungo tempo un’esistenza indipendente anche se i suoi artisti di spicco tendevano a essere stranieri (Rameau è la grande eccezione): il «boemo» Gluck , gli italiani Lulli, Cherubini e Spontini e, alla metà del XIX secolo, il tedesco Meyerbeer, un compositore scrupoloso, industrioso e ambizioso, che nella sua epoca poteva essere salutato come «il Michelangelo della musica…». La sua notorietà fu seguita dall’oblio e quindi da una rivalutazione finale. Le opere francesi destinate a rimanere costantemente vive, fino ai nostri giorni, furono quelle di Gounod (Faust, 1859), Bizet (Carmen, 1875)  e Massenet (Manon, 1884) e vennero spesso rappresentate in Italia.

Richard Wagner.

E la Germania? Il nobile Fidelio di Beethoven è un’opera sui generis. Il pittoresco Franco Cacciatore di Weber fu in voga per un certo periodo e viene a volte (ma raramente con successo) ripreso oggi. E così arriviamo a Wagner, il compositore più influente mai vissuto, che ha lasciato la propria impronta non solo sulla musica, ma anche sulla letteratura, sulla pittura e sul pensiero in generale. (E fermiamoci qui: dicono che siano stati scritti più libri su Wagner che su chiunque altro). Il Lohengrin raggiunse l’Italia solo nel 1871 (l’anno dell’Aida) e il Ring solo nel 1883, ma le idee di Wagner li avevano preceduti. In tutto il mondo, i compositori stavano tentando di scendere a patti con lui attraverso l’approvazione, o l’imitazione, oppure la netta opposizione. Gli ultimi decenni del secolo furono tempi instabili per l’opera italiana. Per sedici anni, tra l’Aida e l’ Otello, Verdi non produsse nuove opere e non vi era all’orizzonte alcun evidente successore. Intanto si succedevano nuove realizzazioni: erano attivi Ponchielli e Marchetti, poi Catalani, Franchetti, Mascagni, Leoncavallo, Giordano, Cilea. Le nuove opere abbondavano, ma gran parte del repertorio, come in altre parti del mondo, veniva preso in prestito dalla Francia. Poi gli anni attorno al 1890 portarono l’ultimo capolavoro di Verdi, il Falstaff, e una manciata di opere di altri compositori: La Cavalleria rusticana, i Pagliacci, e l‘Andrea Chénier. Inoltre, divenne evidente chi sarebbe stato il prossimo compositore che avrebbe conquistato il mondo: la Bohème di Giacomo Puccini fu messa in scena a Torino nel 1896. In poco più di un anno raggiunse Buenos Aires e Berlino, Mosca e Città del Messico, Londra e Los Angeles.

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*Nel prossimo capitolo: Il gran teatro della storia