Leonard Bernstein è nato a Lawrence (Massachusets) nel 1918, da una famiglia ebraica emigrata in America da Rovno, una cittadina dell’Ucraina prossima al confine polacco. All’Università di Harvard fu allievo di Dimitri Mitropoulos e Fritz Reiner. Nel 1943 divenne assistente di Rodtzinski alla Filarmonica di New York. La sera dello stesso anno sostituì Bruno Walter alla direzione di un concerto: il giorno dopo il suo nome era sulla bocca di tutti. In seguito divenne direttore della New York City Symphony e della New York Symphony.

Io, Leonard, fanatico della musica (parte prima)

di Jonathan Cott*

(Pubblicato sul n. 11 di Amadeus, ottobre 1990)

La musica: un abbraccio totale

Docente carismatico, compositore originale e grande direttore d’orchestra. A chi lo accusa di essere esibizionista ed emotivo, Leonard Bernstein risponde: «La musica senza vita è accademia. E il mio contatto con la musica non può che essere un abbraccio totale»

A metà novembre 1989 fui accolto da Leonard Bernstein, un uomo dalle molteplici vite, canuto ma di un entusiasmo fanciullesco, nell’ampio studio (un tempo alloggio del palafreniere) della sua grande e bianca dimora nel Connecticut (una casa colonica della metà del 1700), circondata da ginkgo biloba, gelsi, aceri giapponesi e ciliegi. Le pareti dello studio erano ricoperte da decine di fotografie (la maggior parte firmate) di maestri, amici, eroi ed eroine come Aaron Copland, Igor Stravinskij, Fritz Reiner, Arturo Toscanini, Jennie Tourel, Nadia Boulanger, John Kennedy, Abraham Lincoln, e Bernstein con la moglie (Felicia Montealegre) insieme al pianoforte.

Leonard Bernstein nello studio della sua casa a Fairfield Connecticut.

«Le spiace se ascoltiamo una mia registrazione di vent’anni fa della Prima Sinfonia di Sibelius?», mi chiese il maestro porgendomi un bicchiere di vodka, particolarmente adatta all’invernale musica finlandese che stavamo per ascoltare. «Dovrei eseguire e registrare quest’opera fra breve con la Filarmonica di Vienna e sono anni che non ascolto questa vecchia esecuzione».

Scovò una copia dell’album originario della Columbia Records con la Filarmonica di New York in copertina, la pose sul piatto del grammofono e poi iniziò a cantare, ballare e a dirigere la musica che stavamo ascoltando, offrendomi contemporaneamente osservazioni, spiegazioni e commenti relativi alla sinfonia:

«Ascolti! Qui c’è il tema del Rabbino Ebraico… Qui c’è Beethoven… Qui Ciaikovskij (più tardi sentiremo anche Borodin e Musorgskij)… un po’ di Grieg (ma meglio di Grieg) e ora ecco Sibelius – questo è indubitabilmente Sibelius. (L.B. trascrive rapidamente per me gli elementi del ritmo tipico di Sibelius che abbiamo appena ascoltato).
Poi, il vento… il lamento del vento… e ora una canzone pop (canta) What-did-we-do-till-we-loved? · Sì, questo è un Carosello… e giunge la brezza…»

«In questo movimento ci sono sicuramente numerose prese in prestito» commentai».
«Ma è meraviglioso il modo in cui tutta la musica è legata insieme» replicò Bernstein. «Voglio dire che potrei esaminare con lei La sagra della primavera di Stravinskij e indicarle ciò che è stato preso da Musorgskij e da Ravel – passaggi identici nota-per-nota ad alcuni di Ravel… chiari e furiosi furti! E potrei mostrarle ciò che Beethoven ha preso da Haydn e Mozart. Ma a quale scopo? Tutti abbiamo origine da qualche parte»

«Cosa mi dice di Carl Orff?» chiesi. «Se togliamo Les Noces Stravinskij non rimane molto vero?».
«Orff ha preso nove decimi dello suo stile da Les Noces e l’altro decimo dalla musica popolare israeliana. Le Hora. (L.B. incomincia a cantare una hora battendo il tempo sul tavolo mentre canta). E pensare che Orff era un tale nazista! Certamente gli israeliani hanno rubato dai rumeni. E allora? Se si è dei buoni compositori si fanno dei buoni furti! Perché un compositore è la somma totale delle sue esperienze di ascolto… più la voce e il ritmo che gli appartengono in modo specifico e che lo rendono immediatamente identificabile: “Io sono Wolfgang Amadeus!”. “Io sono Ludwig!”. “Io, io, Sibelius!”»

Il maestro si dirigeva verso il grammofono quando una melodia particolarmente appassionata degli strumenti a corda lo obbligò a fare un ampio movimento con il braccio destro e a dare istruzioni (a invisibili violini): «Ora, gridate…» E poi, rivolgendosi a me: «Ha sentito Jimmy Chambers al corno e Harold Gomberg all’oboe? Che artisti! Non ne esistono più di musicisti come loro…»

Leonard Bernstein sollevò il braccio del grammofono: «Che sinfonia!» esclamò. «È stupefacente pensare che in un primo tempo fu considerata una porcheria». Poi si diresse all’ampio tavolo da lavoro al quale io ero seduto, sollevò la mano destra, diede un colpo e disse: «E ora… incominciamo

Lei una volta ha detto: «Sono un amante fanatico della musica. Non posso vivere un giorno senza ascoltare musica, suonare, studiare musica o pensare a essa». Quando è iniziata questa ossessione?
«Quel giorno del 1928 in cui mia zia Clara, che stava trasferendosi, mollò alla mia famiglia un divano – io avevo dieci anni a quel tempo – e un vecchio pianoforte verticale che, ricordo ancora, aveva un pedale da mandolino (il pedale centrale trasformava lo strumento in una specie di mandolino dal suono grinzoso). Io appoggiai le mani sulla tastiera e rimasi agganciato… per tutta la vita. Lei sicuramente sa cosa significa innamorarsi: si sfiora qualcuno e si rimane catturati. E da quel giorno fino a oggi la mia vita ha sempre avuto al centro la musica.

Un giovane Leonard Bernstein al pianoforte.

Incominciai a studiare da solo pianoforte e inventai un mio sistema armonico. In seguito chiesi e ottenni lezioni di pianoforte – a un dollaro per lezione – da una delle figlie di un nostro vicino, Miss Karp, Frieda Karp. La adoravo, ero pazzamente innamorato di lei. Lei mi insegnò brani per principianti come The Mountain Belle e tutto procedette bene fino a quando io iniziai a eseguire al piano – probabilmente molto male – composizioni che lei non era in grado di suonare. Miss Karp non riusciva a stare dietro alle mie Ballate dì Chopin e così consigliò a mio padre di mandarmi al New England Conservatory of Music. Qui ebbi come insegnante Miss Susan Williams, che costava tre dollari all’ora.
A questo punto mio padre in cominciò a lamentarsi: «Vuoi forse diventare un klezmer?» Per lui klezmer (musicista itinerante dell’Europa Orientale che, per pochi copechi, suonava ai matrimoni e ai barmitzvahs) era poco più di mendicante. Vede, fino a quel momento né io né mio padre (che lavorava nel campo della cosmetica) sapevamo che esisteva un vero e proprio “mondo della musica”. Quando mi portò, avevo quattordici anni, ad ascoltare un concerto per la nostra sinagoga, in cui suonavano i Boston Pops (fu qui che m’innamorai del Bolero di Ravel). Molti mesi più tardi mi portò ad ascoltare un concerto di Sergei Rachmaninoff presso la Symphony Hall: mio padre rimase stupito quanto me nel vedere migliaia persone che pagavano per ascoltare una persona suonare il pianoforte! Ma continuava a recalcitrare all’idea che io prendessi lezioni di pianoforte a tre dollari l’ora. Un dollaro per le lezioni e 25 centesimi di paga la settimana fu tutto ciò che egli mi concesse per la musica. Così incominciai a suonare: in un piccolo gruppo jazz; suonavamo ai … matrimoni e ai barmitzvahs! (Risata). Klezmers! Il sassofonista del nostro gruppo aveva accesso agli arrangiamenti di St. Louis Blues, Deep Night, e di molte delle canzoni di Irving Berlin; tornavo a casa la notte con le dita sanguinanti e due dollari, forse, da accantonare per le mie lezioni di piano.
Ma con la mia nuova insegnante Miss Williams, non mi trovai bene – lei seguiva un suo sistema, basato sul non mostrare mai le nocche. Come si può pensare di suonare la Rapsodia ungherese di Liszt in questo modo? Così mi trovai un’altra insegnante… a sei dollari la lezione e pertanto fui costretto a suonare più musica jazz e cominciai anche a dare lezioni di piano ai bambini dei vicini. Nel frattempo frequentavo la scuola ebraica; e la chiesa a cui appartenevamo (Congregazione Mishkan Tefilah) mi insegnò anch’essa a vivere la musica. C’era un organo, un cantore dalla voce dolce e un coro diretto da un uomo fantastico, il Professor Solomon Braslavsky di Vienna, che compose opere liturgiche grandiose, tipo oratorio, molto influenzate dall’Elijah di Mendelssohn e dalla Missa Solemnis di Beethoven e anche da Mahler. Spesso piangevo ascoltando il coro, il cantore e l’organo che tuonavano. Quelle esperienze ebbero una grande influenza su di me. Solo molti anni dopo, però, mi resi conto che il “segnale della banda” – il modo in cui i Jets si chiamano fra loro in West Side Story – era proprio come il suono del shofar che io ero solito sentire nella chiesa durante il Rosh Hashanah (il capodanno ebraico)».

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*Pubblicato per gentile concessione di Jonathan Cott da “Rolling Stone Magazine” (Settembre 1990) Straight Arrow Publishers, Inc. 1990 (Diritti riservati)