di Giulio Nascimbeni*

(Pubblicato sul n. 3 di Amadeus, febbraio 1990)

Beniamino Gigli prima ancora di essere ammesso nelle aule del Liceo Musicale S. Cecilia di Roma,
l’umile figlio di Recanati era conosciuto come il «Canarino del campanile»; allorché risultò primo assoluto
nel concorso internazionale di Parma, un giudice scrisse sulla sua scheda: «Abbiamo trovato il tenore!»
Oggi vien fatto di pensare anche alle sue canzoni e ai film che vi si ispirarono
e che certamente non passarono indenni dalla critica del tempo.

Non so se sia giusto cominciare così un ricordo di Beniamino Gigli nel centenario della nascita. Temo proprio di commettere un errore, di cedere a un particolare molto marginale. Ma la memoria ha leggi strane, soprassalti improvvisi ai quali non riusciamo a resistere.

Un momento di vero delirio
C’è un vecchio manifesto adesso, davanti ai miei occhi. L’ho scovato in una pubblicazione dedicata alle stagioni passate dell’Arena di Verona. Ricopio integralmente il testo: «Grandiosa stagione lirica estate 1929. Dall’11 al 15 agosto recite straordinarie dell’opera Marta di F. Flotow col generoso concorso del Grande Ufficiale Beniamino Gigli che canterà a scopo benefico». Le recite furono due; lo scopo benefico riguardava la costruzione di una colonia elioterapica denominata «Raggio di Sole».

Beniamino Gigli in uno scatto di Farabola del 1927.

Dire che fu un trionfo è essere riduttivi. Le richieste di bis per la romanza M’apparì tutt’amor vennero definite dai cronisti «furiose». Decine di persone dovettero andare all’ospedale per l’eccessiva ressa delle gradinate. Gigli completò le due serate con un’appendice di canzoni napoletane. Un appassionato sentì il bisogno di spedire un telegramma alla madre del tenore per ringraziarla di aver messo al mondo un simile prodigio.
I miei timori iniziali si attenuano. Nell’episodio che ho raccontato, c’è senza dubbio la componente delle mie origini veronesi. Ma, al di là di questo, vedo in quanto accadde al1’Arena una delle possibili sintesi di ciò che Gigli è stato come cantante e come uomo: un simbolo di generosità illimitata. Non si capisce Gigli, insomma, se non lo si inquadra nel1’aureo tempo delle donazioni, del1’artista che fa costruire nella natia Recanati una villa con sessanta stanze e ventotto bagni, ma firma assegni per l’ospedale, per l’orfanotrofio, per il giovane paralitico che ha la «voce bianca» coma la sua.
Tutto questo è irrimediabilmente remoto. Nessun tenore canta più dai finestrini dei treni, come fece Gigli per rispondere agli applausi di una folla di viaggiatori che avevano riconosciuto l’amato interprete. Altri tempi, altri destini.

Gigli è Alfredo Germont dalla Traviata (Foto Farabola).

«Suono puro e diafano»
Le biografie avevano contribuito a creare la leggenda. Nato il 20 marzo 1890, figlio di un artigiano che alternava al mestiere di calzolaio quello di campanaro del Duomo di Recanati, garzone di falegname, apprendista sarto e commesso di farmacia, prima di essere ammesso al Liceo Musicale di S. Cecilia a Roma: già fin dall’infanzia soprannominato «Il canarino del campanile».
Nel 1914, primo assoluto al concorso internazionale di Parma, con uno dei giudici che scrive sulla scheda: «Abbiamo trovato il tenore». Il 26 dicembre 1918, debutto alla Scala nel Mefistofele, diretto da Toscanini. Il 26 novembre 1920, debutto al Metropolitan, sempre nel Mefistofele.
È praticamente impossibile ripercorrere nei dettagli tutta la carriera. Come ha scritto Rodolfo Celletti ne Le grandi voci Dizionario critico-biografico dei cantanti, quella di Gigli «è stata una di quelle voci che, dall’inizio del romanticismo ad oggi, hanno dato luogo al mito, e al culto, del tenore italiano». In taluni attacchi (Spirto gentil, Dai campi, dai prati, Come un bel dì di maggio, Amor ti vieta), dice ancora Celletti, «il suono era così puro e diafano, e l’espressione così felicemente estatica, che riacquistava improvvisamente peso e significato l’abusato termine di ‘voce angelica’».
E a riprova che talune immagini, a volte logorate dal troppo uso, riprendevano l’originario splendore quando si parlava di Gigli, valgano le parole che Franco Abbiati scrisse sul Corriere ·della Sera all’indomani della morte del tenore, avvenuta a Roma il 30 novembre 1957: «Poche volte è caduta dalla nostra penna la definizione di ‘voce d ‘oro’, non veramente peregrina, ma in alcuni casi insostituibile. Una volta sola la sottolineammo con gioia, nel rapimento di una serata pucciniana che alla Scala aveva fatto acclamare Manon Lescaut. Perché Des Grieux, quella sera memorabile, era Beniamino Gigli e la voce di Gigli pareva proprio d’oro per il colore, il luccicore, la pastosità e il suono, di cui nessun altro metallo può offrirci la similitudine».

Gigli nei panni di Manrico dal Trovatore (Foto Farabola).

Non mancarono anche le critiche
C’è un altro lato della vita di Gigli che è doveroso ricordare, anche se apparirà un po’ spurio per i patiti del melodramma. Penso alle canzoni e ai film che fecero da veicolo a quelle canzoni, in un tempo in cui la diffusione della radio e dei dischi era ancora modesta. Certo, la presenza di Gigli in Non ti scordar di me (1935) e Mamma (1941) non passò senza critiche: Rodolfo, Nemorino, Andrea Chenier, Edgardo, Cavaradossi, Faust, Grimaldo erano lontanissimi dall’immagine di quel bonario papà o marito già sulla cinquantina, con il passo a gambe larghe, tipico di chi deve fare i conti con la pinguedine. Ma questo non impedì che Mamma – solo per te – la mia canzone vola diventasse una specie di inno nazionale, sintesi di spasimi e addii, di «terre assai lontane» e albe sui moli dei porti, di ninne nanne e «Dagli Appennini alle Ande».
La fama del nostro tenore non conobbe confini. Molti soldati italiani (lo dico per diretta testimonianza di carissimi amici), che ebbero la sventura di cadere nelle mani dei tedeschi dopo 1’8 settembre 1943, videro un lampo di bonaria tregua negli occhi dei loro custodi quando questi ripetevano con dura pronuncia: «Ghi-ghli! Ghi – ghli!». Se una voce può avere un così insolito destino, significa che essa è oltre il limite, pur magico, della ribalta.

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* Giulio Nascimbeni fu chiamato nel 1960 al Corriere d’Informazione dal direttore, Gaetano Afeltra. Collaborò per quasi 50 anni con il Corriere della sera, diresse Storia Illustrata e fu direttore della Domenica del Corriere. Per la televisione curò, con Luigi Silori, la trasmissione “Segnalibro”.
Lavorò anche in televisione, dove tra il 1965 e il 1966 curò, in collaborazione con Luigi Silori, la trasmissione “Segnalibro[1]; tra il 1967 e il 1975 condusse Tuttilibri, altra trasmissione dedicata alla letteratura; inoltre diresse trasmissioni culturali per la televisione svizzera. Tra le sue più famose interviste per il Corriere della Sera, quelle a Georges Simenon, Biagio Marin, Erich Fromm, Marguerite Yourcenar, Günter Grass, Jorge Luis Borges, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Italo Calvino, Enzo Biagi, Indro Montanelli, Alda Merini, Dino Buzzati, Eugenio Montale (sua è la voce “Montale” nell’Enciclopedia Europea Garzanti), Carlo Castellaneta, Carlo Bo, Alberto Bevilacqua, Oriana Fallaci, Fernanda Pivano, Leonardo Sciascia, Norberto Bobbio.
Dal 1974 ebbe la responsabilità, come redattore capo, della terza pagina e del supplemento “Libri/Arte” del Corriere della Sera.