di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

La parola è francese, e indica «séguito», «Serie», «successione»: insomma, una collana di pagine musicali differenti, accostate l’una appresso all’altra. Ma il primo a usare suite in questo senso pare sia stato nel 1676 un inglese, Thomas Mace, nel suo Monumento musicale. «Le musiche che la formano devono basarsi sullo stesso suono fondamentale – sulla stessa tonica – e possedere una certa affinità nel loro concetto, o nel carattere, o nell’umore».
La suite a cui Mace si riferisce è quella canonica in uso tra la fine del Seicento e la metà del Settecento: l’età di Bach. E Johann Sebastian Bach ce ne offre numerosi capolavori, per il clavicembalo soprattutto ma anche per l’orchestra. La struttura portante di queste suites è costituita da quattro danze
      – allemanda,
      – corrente
      – sarabanda
      – giga
a cui si integrano spesso un preludio e altre danze, come bourrée, gavotta,   passepied.

Se il nome della suite risale alla fine del Seicento, l’uso di eseguire danze diverse in sequenza è molto più antico e costituisce l’antecedente storico della suite tardo-barocca. Il primo esempio scritto giunto fino a noi è il Lamento di Tristano, del XIV secolo: qui la danza lenta iniziale è seguita da una danza rapida, sugli stessi motivi della prima: la rotta. Nel Quattrocento i trattati di danza riferiscono la prassi più consueta: il susseguirsi, nelle feste danzanti, di bassadanza (lenta) e saltarello (rapido).
Cambiano i balli, non cambia la logica della sequenza di ritmi diversi: la suite appunto. Sarà Johann Jacob Froberger a fissare, intorno alla metà del XVII secolo, lo schema di riferimento per tutti i compositori barocchi dell’Europa centro-settentrionale: allemanda, corrente, sarabanda. In Italia invece il termine suite compare molto raramente. Ma non il genere, che i nostri compositori coltivano per l’organico del piccolo complesso da camera. Le molte sonate da camera composte in Italia nel Seicento, infatti, non sono che suites vere e proprie. L‘Opera 2 di Corelli consta di dodici sonate per lo più in quattro movimenti: preludio, allemanda, corrente (o sarabanda), gavotta (o giga). Anche il Concerto da camera di Torelli è formato di dodici suites ma questa volta di tre movimenti.
In Francia un altro tipo di suite godette allora di grande fortuna: quella che cuciva insieme divere pagine tratte dalle opere di Lully. Intorno alla metà del Settecento l’uso della suite tramonta. I compositori colti sono interessati ai più sofisticati e astratti modelli della sonata classica. Le danze tornano a essere materiale più occasionale, e a vivere ciascuna una sua vita, indipendente da quella delle altre.
Il revival storico tipico del 1’Ottocento e del Novecento porta a un rifiorire della suite, a volte esplicitamente, come nella Suite Italiana di Joachim Raff o nella Suite lirica di Alban Berg; a volte implicitamente, come nelle collane pianistiche di Schumann (Papillons, Kreisleriana, Carnaval). Qui il concetto di suite è operante nel suo significato più generale, di successione di pezzi, non più necessariamente di pezzi di danza. Per questa ragione, negli ultimi due secoli, il termine ha continuato ad essere impiegato per indicare una collana di brani tratti da opere più ampie: melodrammi, balletti, musiche di scena o da film. Celebri sono le suites dai balletti di Ciaikovski: Schiaccianoci, Il lago dei cigni, La bella addormentata (che raramente sono invece eseguiti nella loro interezza).
In questi casi è l’autore stesso, oppure un revisore, a scegliere dall’intera composizione i brani che formeranno la suite. I pezzi, a volte, sono disposti nell’ordine originario, ma più spesso in un ordine nuovo, secondo criteri di equilibrio musicale.
A volte questo rimescolamento di carte provoca curiosi equivoci, come nel caso del celebre Mattino di Edvard Grieg, dalle musiche di scena per il dramma Peer Gynt di Ibsen. «Il sipario si leva su un fresco mattino norvegese, con il sole che inonda il fjord ancora gelato…» potrebbe suggerire il critico.
Senonché il brano, che nella suite effettivamente apre l’intera composizione, nella sequenza originaria delle musiche di scena cade nel quarto atto, quando il protagonista Peer si ritrova ad ammirare rapito i prodigi della natura sotto… il sole cocente delle dune marocchine!
A volte le suites da composizioni più ampie sono preparate da revisori: è il caso della Seconda suite dall’ Arlesiana di Bizet, a opera di Ernest Guiraud. Il revisore, in questo caso, arriva fino al punto di rielaborare in proprio i materiali tematici dell’originale: nel Finale i due temi più famosi dell’opera vengono sovrapposti, poi alternati, l’uno con l’altro, secondo le tecniche del centone.

(Amadeus n. 7, giugno 1990)